La liturgia, guida della vita cristiana, dallo scorso mercoledì, il mercoledì delle Ceneri, ci ha introdotto nel tempo detto della quaresima, come vengono chiamati i quaranta giorni che preparano alla Pasqua. Il numero dei giorni corrisponde a quello trascorso da Gesù nel deserto, prima di dare inizio alla fase finale della sua missione. Il vangelo della prima domenica, come ogni anno, parla appunto di Gesù che si prepara ritirandosi per quaranta giorni nel deserto, dove subisce le tentazioni di satana. Il vangelo di quest’anno (Marco 1,12-15), a differenza di quelli di Matteo e di Luca, non descrive il contenuto delle tentazioni, dando così rilievo al fatto in sé, di Gesù che si ritira e soprattutto che affronta la prova.

Il fatto risulta sorprendente per chi pensa a Gesù come Dio. Ogni uomo conosce bene la tentazione; ma come può Dio, perfezione assoluta, essere anch’egli tentato al male? L’interrogativo trova risposta nel fatto che Gesù è nel contempo Dio e uomo: pur mantenendo la sua divinità, ha assunto anche la natura umana, ed è uomo per davvero, fino in fondo, compresa la sua debolezza: come i vangeli attestano, egli ha provato la fame e la sete, la stanchezza e la povertà, la paura e la sofferenza, la morte. Tutto ha condiviso di noi, escluso il peccato (dal quale è venuto a liberarci) ma non esclusa la tentazione a commetterlo: e se non ha ceduto, è per insegnarci che è possibile anche a noi fare altrettanto.

Tentazioni a parte, è da rilevare anche il “quando” Gesù si è ritirato nel deserto: come si è detto, prima di dare inizio al suo ministero pubblico, ai tre anni che – egli lo sapeva – si sarebbero conclusi con la sua Pasqua di morte e risurrezione. Il ritiro fu dunque in preparazione al passo supremo della sua vita terrena, quello che i suoi fedeli rivivono ogni anno nelle celebrazioni pasquali. La quaresima è un invito a prepararci anche noi a rivivere con lui la nostra Pasqua, in cui per suo merito muore “l’uomo vecchio” che è in noi e possiamo rinascere, liberi dal male e gioiosamente protesi verso il nostro Redentore. I nostri quaranta giorni servono a prendere coscienza che nello spirito siamo malati, ma di una malattia curabile; la cura è impegnativa, ma conviene affrontarla, sapendo che la guarigione è certa. La cura dell’anima che la quaresima propone presenta, come ogni altra cura, i suoi segni esteriori, le sue medicine e la sua finalità. I segni sono le ceneri sul capo (espressione della consapevolezza di essere bisognosi di cure e della volontà di intraprenderle) e una liturgia più austera (niente “Gloria” né “Alleluia”, paramenti violacei, niente fiori né organo), a significare la serietà dell’impegno.

Quanto alle medicine, esse sono tre. La prima è la riscoperta dei doni di Dio, a cominciare dal battesimo, con cui Egli ci ha adottati come figli. La seconda è costituita dalla confessione (con cui Egli generosamente ci rigenera), dalla comunione (con cui ci sostiene nel cammino della vita) e da una più attenta riflessione sulla sua Parola (che si traduce poi in una più assidua preghiera).

La terza è la pratica della carità, consistente nel perdonare chi ci avesse offeso, nel confortare chi soffre, e in genere nell’assumere un benevolo atteggiamento verso il prossimo, comprendente se possibile l’aiuto materiale a chi è nel bisogno, direttamente o tramite chi meglio di noi è in grado di provvedere (penso ad esempio alla Caritas). Resta da dire della finalità della cura. In proposito occorre sfatare la concezione, tanto diffusa quanto errata, che vivere da cristiani significhi mortificarsi, rinunciare, chiudersi nella tristezza, in una vita umbratile che non conosce la gioia.

La realtà sta esattamente agli antipodi. Il brano evangelico di oggi, dopo aver accennato al ritiro di Gesù nel deserto, prosegue così: “Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio: Convertitevi e credete al vangelo”. Vangelo significa bella notizia; accoglierlo significa credere che lui è la nostra beatitudine, che in lui si trova l’autentico senso della nostra vita e dunque la vera, duratura felicità.                                  

mons. Roberto Brunelli

Il segno delle Ceneri